Nei giorni successivi alla scomparsa di Steve Jobs la parola più utilizzata dai media per descrivere il co-fondatore di Apple, assieme a “genio”, è stata senza dubbio “visionario”. Qualcuno ha fatto meglio e ha parlato di “genio visionario”. Ora, è facile definire visionario a posteriori qualcuno che ha preso le strade giuste, nel corso della sua vita professionale e personale, sapendo già fin da principio dove sarebbe stato il traguardo.
Era molto più difficile capire a priori, 14 anni fa, che le previsioni (o semplicemente “le visioni”) di Steve Jobs si sarebbero rivelate corrette. Almeno per due motivi: a) le strade che altri avrebbero voluto percorrere (per interessi legati allo status quo, principalmente) non arrivavano affatto laddove Jobs prevedeva che arrivassero “le sue” – tutt’ora è così, basti pensare al dibattito aperto sulla post-pc era; b) riuscire ad arrivare laddove si prevede di approdare è un lavoro difficile che non si ferma alla pre-visione: è un lavoro impegnativo, costante e attinente ad un meta-livello di comprensione superiore rispetto alle cose della quotidianità. Un livello che presuppone la rara capacità di saper mettere a fuoco con estrema nitidezza quella che gli americani chiamano “the bigger picture”.