Blacklist: come Apple manipola la stampa

di Redazione 2

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Apple ha una lista nera della stampa. Contiene i nomi di persone o siti che sono ignorati da Apple per non essere stati leali alla compagnia. È una vera e propria punizione. I giornalisti, gli editorialisti e le celebrità il cui nome compare sulla blacklist non possono accedere a informazioni, prodotti ed eventi, se non quando ci può accedere il grande pubblico.

L’idea di creare una blacklist non è nuova, ma è di solito una carta giocata da un intero stato. Tra il 1930 e il 1950, gli Stati Uniti avevano creato una blacklist per tutte le celebrità che dimostravano una affezione verso il comunismo. Sei comunista? La tua carriera è finita. Anche in Cina i giornalisti dissidenti vengono infilati in una blacklist (o dietro le sbarre di una cella, se hanno fatto qualcosa che ha particolarmente disturbato il governo). È così che chi ha intenzione di continuare a lavorare normalmente, è costretto a mostrare un supporto smisurato per il capitalismo, per il governo, o per i dispositivi di Apple.

Ovvio: gli effetti collaterali di non fare i super-supporter di Apple non è lontanamente paragonabile alla Cina o al regno di terrore di Hollywood imposto da Joseph McCarthy, ma se qualcuno dovesse parlare male di Apple in campi che stanno a cuore a Cook, come il lavoro nelle fabbriche asiatiche e l’ambiente, ci sono pochi dubbi sul fatto che quel qualcuno finirebbe nella blacklist di Apple.

Altri argomenti che, se trattati nella maniera scorretta, possono disturbare Apple sono Steve Jobs e i valori e la cultura dell’azienda. Quando Gizmodo ha “rubato” e mostrato al mondo il prototipo di iPhone 4, mentre Apple chiedeva che le fosse riconsegnato, si è guadagnato un posto sulla blacklist. Uno dei siti tecnologici più letti al tempo è così stato escluso da ogni evento Apple.

Ogni tanto ci sono casi particolari. Quando, ad esempio, il New York Times ha parlato male del lavoro nelle fabbriche cinesi che collaborano con Apple, Cook ha offerto al quotidiano una intervista esclusiva per chiarire la questione. Certo, si trattava del New York Times.

E se state pensando che i giornalisti che finiscono sulla Whitelist, quelli chiamati da Apple per i suoi eventi, siano personaggi privi di etica, Mike Elgan di Cult of Mac assicura:

Dovete anche sapere che la maggior parte dei giornalisti sulla whitelist non sono privi di etica o compromessi. Molti di loro sono veramente pro-Apple nei loro pezzi, non scrivono quello che scrivono censurandosi da soli o per ragioni strategiche. […] A conti fatti non è una questione così importante. In realtà la maggior parte delle grandi compagnie ha qualche forma di blacklist. […] In ogni evento vedo la blacklist di Apple nel contesto autoritario e selettivo della Cultura della compagnia. Non esegui design, produzione e distribuzione come lo fa Apple se non sei fissato con il controllo.

[via]

Commenti (2)

  1. Un Po come il mito del privě delle discoteche, da ragazzo : luogo misterioso per élite poi, lavora che ci entri, scoscopri che era meglio fuori.

  2. Pessimo articolo, titolo altisonante e contenuto non coerente.
    Inizia con un malevolo “Blacklist: come Apple manipola la stampa”;
    per continuare poi con “ignorati da Apple per non essere stati leali alla compagnia”;
    rincarando la dose con “gli effetti collaterali di non fare i super-supporter di Apple”;
    per poi rinunciare al buon senso lamentandosi se “argomenti che, se trattati nella maniera scorretta, possono disturbare Apple”.
    Forse è lecito trattare argomenti in maniera scorretta, o essere sleali con una compagnia? Tipo quelle marchette giornalistiche pro Samsung/Android che si trovano sui vari media?

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