I linguisti dell’American Dialect Society hanno scelto “app” come vocabolo più rappresentativo dell’anno che si è da poco concluso. Secondo i 69 esperti che si sono riuniti la scorsa settimana a Pittsburgh per la votazione finale, la parola ha ora un valore a se, indipendente dal termine più lungo, application, di cui è l’abbreviazione.
Nata dal quell’abitudine prettamente americana di lasciar cadere le lettere in eccesso se il vocabolo si capisce lo stesso (sales rep per sales representative, tanto per fare un esempio) “app” è effettivamente diventata una parola di senso compiuto che non indica tanto un programma informatico in generale, quanto un software che gira su dispositivi mobili ed è spesso “autosufficiente” rispetto al sistema che la ospita nell’espletare le funzioni per cui è pensato.
A portare il termine in auge come contrapposizione con il Web ci ha poi pensato il direttore di Wired Chris Anderson, con il suo famoso articolone (che non ha certo messo tutti d’accordo) sulla morte del Web in favore di un futuro fatto di tanti piccoli software atomizzati sui dispositivi, come cellule a sé stanti.
E la scelta dei linguisti casca a fagiolo proprio nei giorni in cui Microsoft sta cercando di impedire ad Apple di registrare il trademark sul termine App Store, ritenuto troppo generico. Difficile dare totalmente torto a Redmond (anche se “Windows” non era esattamente un termine specifico, a suo tempo) perché è innegabile che ormai app sia un termine di uso comune.
Il successo dell’iPhone è senza dubbio il primo vettore della diffusione della parola e varie operazioni di marketing Apple (che non a caso ha giocato anche sull’assonanza con il proprio nome) hanno contribuito a renderne popolare l’uso. Si pensi al tormentone pubblicitario “There’s an app for that” che dava all’app un valore quasi taumaturgico, che a una semplice e generica “application” in passato nessuno avrebbe mai riconosciuto.
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