Con il successo, però, è cresciuto inevitabilmente anche l’interesse verso l’App Store da parte di numerosi soggetti dagli scopi ambigui: scammer, semplici truffatorucoli che provano a incassare qualche facile spicciolo copiando il gioco di successo del momento, oppure veri e propri servizi esterni all’App Store che in cambio di laute somme riescono a far scalare le classifiche ad applicazioni di ogni genere tramite download fasulli o altri metodi illegali.
La tendenza l’avevamo già notata anche noi, e non eravamo certamente da soli. Ne scrivevo giusto un paio di settimane fa, citando il caso dei cloni di Clear e della cosiddetta “deriva televisiva” dell’App Store italiano.
Ora anche le grandi pubblicazioni hanno subodorato “la storia” e se ne stanno occupando. Giusto ieri, ad esempio, Bloomberg Businessweek ha pubblicato un articolo di Adam Satariano e Douglas MacMillan il cui titolo non ha bisogno di traduzione: “Anarchy in the App Store”.
Forse “Anarchy” è un po’ troppo, ma possiamo capire che la tentazione di un riferimento ai Sex Pistols fosse troppo ghiotta per non essere assecondata.
Sensazionalismo del titolo a parte, l’articolo di Satariano e MacMillan porta in primo piano una questione che non è possibile trascurare: l’App Store è popolato da un numero crescente di applicazioni palesemente in contrasto con il concetto di “controllo all’ingresso” che Apple ha imposto con successo negli ultimi anni.
Due grandi problemi
In primis ci sono le applicazioni che violano palesemente il copyright o copiano spudoratamente altre app di maggiore successo. Il caso di Pokemon giallo e tutti i cloni di Angry Birds ne sono un esempio fin troppo evidente.
L’altra grande tipologia di scam in corso nell’App Store riguarda le classifiche e in particolar modo tutti quei servizi “pubblicitari” che consentono agli sviluppatori di far salire rapidamente le proprie applicazioni in classifica grazie a stratagemmi a volte al limite della legalità e molto spesso incentrati sul download dell’applicazione da parte di falsi account.
L’articolo di Bloomberg Businessweek cita in particolare il caso di Chang-Min Pak, ex ingegnere Adobe che grazie alla sua GTekna, azienda che offre proprio questo tipo di servizi, lo scorso anno è riuscito a mettersi in tasca qualcosa come due milioni di dollari. Pak, che pure si è lasciato intervistare senza problemi, si limita a dire che la sua azienda ha trovato un buon metodo per spingere rapidamente in alto nelle classifiche le applicazioni degli sviluppatori che pagano grazie a delle inserzioni pubblicitarie particolarmente accattivanti.
Quello che altri sostengono (in particolare agenzie di promozione delle app concorrenti di GTekna) è che Pak abbia messo in piedi un giro di download fasulli operati da migliaia di lavoratori cinesi pagati pochi spiccioli per scaricare applicazioni tutto il giorno con account falsi.
Quali soluzioni?
Che cosa sta facendo Apple per trovare una soluzione a questi due macro-problemi?
Nel caso delle applicazioni “clone”, c’è poco da fare: l’unica soluzione plausibile viene da un serio potenziamento del processo di revisione.
Si sa ancora molto poco sui metodi e i protocolli utilizzati internamente da Apple per esaminare il numero enorme di applicazioni che ogni giorno chiedono di essere ammesse nell’App Store. Un ex-manager con cui i giornalisti di Bloomberg hanno avuto modo di parlare sostiene che ad ogni applicazione vengono dedicati in media 15 minuti prima che un giudizio venga emesso. Le app indicate come “da bocciare” sono poi analizzate di nuovo da un comitato apposito.
Rimane il fatto che 15 minuti sono troppo pochi per capire se un’applicazione fa qualcosa di malevolo o viola un qualche cavillo del regolamento dell’App Store. Dovrebbero essere sufficienti, tuttavia, per scartare a prima vista applicazioni che siano cloni palesi di altre app famose o violino chiaramente il copyright di altre aziende. Anche in questo caso le brutte copie di giochi famosi e il buon vecchio Pokemon Giallo (ma anche gli emulatori Mame, o iDos) sono esempi calzanti. In questi casi la politica Apple è quella di eliminare a posteriori l’app precedentemente approvata per sbaglio.
Gestire la questione dei servizi che offrono facili scalate alle classifiche, invece, è sicuramente più complicato. Individuare reti di downloader fasulli, disabilitarne gli account, controllare che le applicazioni che salgono in classifica non siano state spinte con metodi illegali sono tutte operazioni difficili da condurre.
Una prima misura che Apple ha scelto di attuare in tal senso (e molti grandi sviluppatori hanno subodorato il pericolo e abbandonato il metodo) è l’espulsione dall’App Store di tutti i developers che hanno utilizzato questi metodi per scalare le classifiche. Qualcosa si sta muovendo, almeno a giudicare dal calo netto di download (-24%) registrato dall’App Store fra gennaio e febbraio, segno che probabilmente alcune grandi reti di downloader fasulli hanno cessato la propria attività o l’hanno sensibilmente ridimensionata.
Un aiuto per trovare una migliore soluzione ad entrambe le problematiche potrebbe fornirlo il know-how di Chomp, startup all’avanguardia nel campo della ricerca delle applicazioni all’interno di grandi repository complesse come l’App Store e l’Android Market che Apple ha acquisito il mese scorso per una cifra stimata di 50 milioni di dollari.
Link: Anarchy in The App Store – Bloomberg Businessweek.
1 commento su “iPacchi: Bloomberg Businessweek e l’anarchia nell’App Store”