Non è un mistero: dei circa 150 miliardi di dollari che Apple ha in cassa in questo momento più di 100 sono “stoccati” all’estero e non vengono rimpatriati per evitare di pagare tasse salate sul loro rientro.
Il Senato degli Stati Uniti vuole vederci chiaro su questa pratica (diffusa e legale) che costa ogni anno miliardi di dollari di mancati introiti federali ed ha avviato una nuova indagine nell’ambito della quale martedì prossimo sarà chiamato a testimoniare anche il CEO di Apple, Tim Cook.
Apple non è l’unica grande azienda americana a mettere in pratica questo tipo di strategia, visto che anche rappresentati di Microsoft e Hewlett Packard verranno ascoltati dalla commissione del Senato. Tuttavia l’azienda di Cupertino genera un maggior interesse mediatico vuoi per la sua importanza, vuoi per l’enorme capitale in gioco.
Il sistema, che il New York Times aveva dettagliato in un articolo qualche mese fa, è abbastanza semplice: i proventi globali raccolti dall’azienda su mercati esteri restano su conti esteri. Vengono utilizzati per le operazioni all’estero e non rientrano mai per non essere sottoposti alla tassazione del 35% prevista dalla legge statunitense. Le operazioni in patria sono finanziate invece con i proventi del mercato interno.
Il sistema è talmente conveniente che per evitare di pagare circa 9 miliardi di tasse sul rientro dei capitali, Apple ha deciso di finanziare il proprio piano di stock buyback con denaro a debito (ottenuto tramite l’emissione di bond) anziché con le proprie “sostanze”, che pure non mancherebbero.
Può sembrare scandaloso, ma è solo l’applicazione capitalistica del principio di minor resistenza: se ci sono vie legali percorribili per risparmiare miliardi sulle tasse, i contabili le imboccheranno sicuramente.
Gli investitori, del resto, sarebbero assai scontenti di constatare un esborso di 9 miliardi a favore dello Zio Sam per principio “etico” e, come detto, non c’è nulla di illegale da contestare. Sta di fatto, però, che la percezione pubblica di queste pratiche è tutto fuorché positiva.
Lo sanno anche alla Apple, tanto che il commento ufficiale sulla questione è decisamente sulla difensiva:
“Apple è uno dei maggiori contribuenti degli Stati Uniti, con un esborso di 6 miliardi di dollari in tasse aziendali federali nel corso del 2012. Inoltre aiutiamo la creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro negli Stati Uniti mantenendo in California le nostre operazioni di Ricerca e Sviluppo e con la creazione di prodotti che ridefiniscono intere categorie come l’iPhone, l’iPad e l’app store, che ha generato miliardi di dollari di vendite per gli sviluppatori software.”
Se qualcuno se lo stesse chiedendo, 6 miliardi di dollari sono circa il 2,6% sul fatturato Apple del 2012, ovvero il 14% sui profitti di 42 miliardi dello scorso anno (l’imponibile vero e proprio per il regime fiscale delle Corporation americane). Un livello di tassazione legale cui molti imprenditori italiani aspirerebbero più che volentieri.
Le tasse si pagano sui profitti netti, non sul fatturato, sveglia! Quindi sono circa il 14%, se non ricordo male i profitti erano 42 miliardi o 44.
Giusto, è espresso male, correggo e riformulo, grazie.
P.s. – credo che in tanti qui ci metterebbero la firma sul 14% ;)
@Camillo Miller: vero, però se la legge lo consente non ci vedo nulla di male. Nessuno di quelli che criticherà Apple per questa cosa avrebbe pagato un cent in più. Ditemi se sbaglio.
Assolutamente d’accordo, infatti con principio di minor resistenza intendevo questo. Si puo’ fare e lo fanno tutte le corporation, nulla di illegale. Resta il fatto che tutte queste aziende pagano oggettivamente poco rispetto al contribuente medio, anche quello americano
Carlo ha detto:
Le tasse su pagano sul netto ?
Da quando ? In quale paese ?
In tutto il mondo le tasse si pagano sul lordo. E quindi sul fatturato. Non sul netto.
In realtà credo abbia ragione Carlo, perché il regime fiscale statunitense per le corporation prevede una tassazione degli utili.