Fantasmi del passato che ritornano a turbare la tranquillità di Cupertino. Da una parte il grande, inevitabile errore dei DRM sulla musica dell’iTunes Store, di cui Apple si è liberata ormai da tempo ma che rimane, come macchia indelebile. Dall’altra la hybris di Steve Jobs, tratto incancellabile del suo carattere, efficace nelle trattative e controproducente come poche altre cose in un’aula di tribunale. Nel processo che parte oggi in California gli avvocati dovranno lavorare sodo: email, messaggi e anche un video, dicono dall’accusa, rendono evidente la deliberazione con cui l’iCEO di Apple perseguì l’obiettivo di proteggere il dominio dell’iPod impedendo la riproduzione sul dispositivo di musica non acquistata da iTunes Store o “rippata” da CD.
Le accuse sono chiare: gli utenti che avessero voluto utilizzare sul proprio iPod la musica acquistata da altri Store concorrenti ad iTunes non potevano farlo. Il sistema lo impediva. Secondo i sostenitore della class action quella chiara violazione delle leggi anti-trust deve essere punita. Per la precisione con un risarcimento da 350 milioni di dollari. A tanto ammontano i “danni” che Apple si troverebbe a pagare nel caso perdesse la causa.
Bruscolini, certo, per un’azienda che incassa profitti per svariati miliardi a trimestre e che ha da parte nutriti fondi di sicurezza per gli “inciampi” legali come questo. A rendere interessante questa causa, infatti, non sono le implicazioni sulla bottom line di Apple, né il totale anacronismo della questione, che dice molto del disallineamento fra i tempi della tecnologia e i tempi della legge.
No, a rendere interessante questa class-action è l’importanza che riveste, ancora oggi, la pesante eredità di Steve Jobs. Il temperamento dell’iCEO torna a perseguitare Apple, ora che lui non è più qui per difendersi (o “distorcere la realtà”, come potrebbe dire qualche maligno). Email e “reperti” tangibili, particolarmente pesanti in tribunale, che turbano le notti degli avvocati di Cupertino.
“Dobbiamo essere sicuri che quando Music Match lancerà il suo store di download musicali, non possano usare l’iPod”, scriveva Jobs nel 2003 in una email già resa pubblica dall’accusa. “Sarà un problema?”.
Non è chiaro, invece, cosa intendano gli avvocati quando parlano di “video”. Possibile che sia una registrazione privata mai vista, oppure si tratta semplicemente di qualche estratto di un keynote o di altro evento pubblico? Lo sapremo nei prossimi giorni.
Non è la prima volta che Apple si trova a dover fare i conti con l’eredità ingombrante di Steve. In una causa sulle pratiche anticoncorrenziali che Google, Apple e altre aziende della Silicon Valley hanno messo in piedi in passato per bloccare il “trasbordo” di dipendenti ad alta specializzazione, una email di Jobs all’allora CEO di Google, Eric Schmidt, è la pistola fumante: “Mi è stato detto che il gruppo per il software per cellulari di Google sta reclutando senza sosta dal nostro gruppo iPod. Se è vero, puoi trovare il modo di mettere un freno a questa cosa?”.
L’altra causa in cui le email di Steve hanno giocato un ruolo determinante è forse la più controversa. E’ quella sul “cartello” fra Apple ed alcuni grandi editori volto a spezzare l’egemonia di Amazon sul mercato dei libri digitali. Anche se pure in questo caso la volontà di accordarsi per sterzare il mercato nella direzione voluta è chiara ed evidente da parte di Jobs, rimane difficile pensare che gli accordi fra Apple e gli editori possano aver costituito una pratica anti-concorrenziale. Soprattutto quando l’incumbent Amazon non ha subito alcun danno reale ed anzi ha continuato e continua a fare il bello e cattivo tempo nel settore dell’editoria tutta, non solo quella digitale.
Il grande vantaggio di Amazon, va detto, è quello di avere un CEO come Jeff Bezos, molto più attento alla rilettura delle email prima di premere il bottone “Invia” del suo client di posta elettronica.